MASSIMILIANO DAMAGGIO: D’ARIA E LUCE

Massimiliano Damaggio l’ho conosciuto da poco, anzi, non ci siamo mai ancora conosciuti. Eppure da sempre ci incontriamo, ad Atene, per le viuzze semi affollate, svoltando a destra tra Akadimìas e Solonos, o in qualche strada dal nome vagamente familiare – Viktoros Ugko – a Metaxurgyion, e un po’ più in là, a Colono, dove un Edipo non più zoppo, non più cieco, siede ai tavolini del Kafenìon giocando a tàvli con gli anziani amici.

Io qui vi parlerò solo di un tassello. Di una rifrazione personale, che dalla poesia tutta ‘ossa e sangue’ di Damaggio m’ha approdata ad un’anima laica, al tredicesimo dio che ci abita.

Massimiliano Damaggio l’ho conosciuto dentro una frase, guardando il video di una presentazione, quella di “Edifici pericolanti”, avvenuta in una quasi sospensione temporale; dove il sorriso tra i due musicisti, Simone Mongelli e Dimitris Sandalis (mentre ci si inoltra già in una fine, dentro un inizio – dentro tutto ciò che stava per fiorire, durante i quaranta minuti di palco –) è il filo lungo, invisibile che lega le umanità erranti, stupite.

La frase di cui parlavo è la seguente:

Non m’interessa cercare residui del passato nel presente e quindi non ho una visione archeologica o turistica della mia città

Eccolo, quel ‘mia’, risuonato con la grazia e la bellezza dell’amore, con la sua forza e con le resistenze – cadute – a un sentimento che non si sceglie. La mia città, così come l’ho sentita e la vivo anch’io: e mentre la lettura proseguiva, e la musica volava, tempo e spazio si sono ridotti, fino a restituirmi qualcosa di preciso, di conosciuto e affine. Atene.

Sono nato ad Atene, nel 1999, all’età di 29 anni. Prima semplicemente non ero esistito.

Con quale precisione, penso, avvengono gli incontri. Nel 1999, all’età di 24 anni, anch’io nascevo. Lo ricordo bene. Per 24 anni, compresi quelli dell’infanzia inconsapevole, mi ero portata dentro la zavorra di un esilio, la sensazione costante e ruvida di una mancanza, di non appartenere al luogo dov’ero nata ma mai esistita. Ad Atene, un bel giorno, ho alzato gli occhi, li ho riabbassati nel caos delle strade, e mi sono sentita come un pendolo che trova finalmente la pace dello stare. Ero a casa.

E dopo anni – dopo anni di andare e venire tra la Grecia e l’Italia -, anni attraversati con una visione ch’era Atene dentro e dietro l’Atene dei marmi e dei turisti, inciampo nella stessa visione, caduta dalla tasca di qualcun altro. E parlando successivamente con Massimiliano, scopro che quella visione, anche per lui come per me, viene dall’aria, dalla luce – luce e aria, che creano e ricreano continuamente la realtà, lì, come un codice che cambi ma composto d’un solo segno sempre uguale, un atto spontaneo, una naturalezza cercata dalla natura, un ombelico.

La poesia che segue, prima in greco e poi in italiano, e poi il breve testo in prosa che accompagna e chiude, sono fatti proprio di quella luce, di quell’aria. È lo stesso fluire, quella leggerezza che porta ogni immagine a evaporare mentre sta avvenendo, per sempre. Forse qui risuona quel misterioso avverbio, l’ἀεί che significa ‘sempre’ – ma un sempre né lineare né circolare -, quello stesso che Omero mette in bocca a Zeus, nell’ultimo libro dell’Odissea, quando annuncia il prossimo nascondimento degli dei, il loro ritirarsi dal mondo.

Forse Atene è un simbolo che riposa in se stesso, come avrebbe detto l’antropologo Jakob Bachofen, e che ad altro non rimanda se non a se stesso.

Buona lettura

Πορτρέτο μιας πόλης

Θα υπάρχει πάντα ένας, κάποιος
που θα κατεβαίνει τη Θεμιστοκλέους
στο χλιαρό αεράκι, κάτω από δενδράκια
ένα καλοκαίρι δίχως μουσική
σύντομα φύλλα της σιωπής
στο φως του μεσημεριού – κάποιος
θα κατεβαίνει τα σκαλιά, κομμένα στα δυο
από την κίτρινη σκιά των λύχνων
και θα πέφτει, όπως έπεσα τη νύχτα αυτή εγώ
στη ζεστή αγκαλιά μιας ασφάλτου

Θα υπάρχει πάλι κάποιος, σε τούτα
τα διαυγή τ’ απογεύματα σαν μωρό
που κοιτάζει, κολλημένος στο τιμόνι
εκεί όπου τελειώνει το Ποτάμι, κι ο δρόμος
πετάει πάνω από τη θάλασσα – κάποιος
θ’ αποφασίσει να μην στρίψει, όπως θα ‘πρεπε
να κάνω εγώ, για να μείνω εδώ αιώνιος
πολίτης του Φαλήρου

Ένας, κάποιος, που θα σταματήσει
στο Θησείο, καθώς κάνει κάτι, μια δουλίτσα
στο Νοέμβρη τον ζεστό και σκιερό
τον γεμάτο από τραπεζάκια, τελευταία στρατιωτάκια
της Αντίστασης σε χρόνο, γραβάτα και παραγωγή –
από τη μια πλευρά ένας άνθρωπος, ένας άνθρωπος
από την άλλη
παράγουν λόγο κι αίσθημα κι εκκρεμότητα

Λόγος, αίσθημα, εκκρεμότητα
του χρόνου, στο κουτσό το τραπεζάκι
σε δυο καρεκλίτσες στου Μεταξουργείου τη βραδιά,
κάποιος θα κοιτάζει
από μια αχανή απόσταση
τα χνάρια του απλωμένα
στον χρόνο που διάβηκε: ήταν
λίγος, αλλά φαινόταν πολύς:
να τον μοιραστούμε μπροστά σε μια μπίρα όλοι
τη νύχτα

Όλη τη νύχτα, όλα τα χρόνια, όλο το χρόνο
ώσπου να φανούν αρχαιολόγοι σαστισμένοι
που κάτω από τις πέτρες
προσπαθούνε να ερμηνεύσουν
κόκκαλα, πράγματα, σημειώσεις
που δεν θα ‘χουν πια το όνομά σου

και θα ‘ναι, πάλι, όπως πάντα
η Αθήνα.

Ritratto di città

Ci sarà sempre uno, qualcuno
che scenderà per Themistokléοus
nell’aria tiepida, sotto gli alberelli
che d’estate non suonano
le brevi foglie di silenzio
nella luce del pomeriggio – qualcuno
che scenderà i gradini, tagliati in due
dall’ombra gialla delle luci
e cadrà, come questa notte io sono caduto
nell’abbraccio caldo di un asfalto

Ci sarà ancora uno, nei molti
pomeriggi limpidi, come un bambino
ad occhi spalancati, incollato al volante
là dove finisce il Fiume, e la strada
vola sopra il mare – qualcuno
che non vorrà curvare, come io
avrei dovuto fare, per restare qui per sempre
cittadino di Fàliro

Uno, qualcuno, si fermerà
a Thissìon, mentre fa qualcosa, un lavoretto
nel novembre caldo e ombroso e pieno
di tavolini, ultimi soldatini della Resistenza
a tempo, cravatta e produzione –
da un lato un uomo, un uomo
dall’altro, producono pensiero, e sentimento, e sospensione

Pensiero, sentimento, sospensione
del tempo, al tavolino zoppo
due sedioline, nella notte di Metaxuryìon
qualcuno guarderà
da una distanza enorme
le proprie orme, distese
nel tempo camminato: era
poco, ma sembrava tanto:
perché non condividerlo davanti a una birra, tutti
la notte?

Tutta la notte, tutti gli anni, tutto il tempo
finché compariranno archeologi perplessi
e sotto le pietre
tenteranno di decifrare
ossa, oggetti, appunti
che non avranno più il tuo nome

che saranno, ancora, come sempre
Atene.

***

Sono nato ad Atene, nel 1999, all’età di 29 anni. Prima semplicemente non ero esistito. Mi sono chiesto molte volte cose significasse questa affermazione. La spiegazione più banale è che ogni pianta ha bisogno di un terreno adatto perché viva, e che Atene fosse quel terreno.

Non m’interessa cercare residui del passato nel presente e quindi non ho una visione archeologica o turistica di questa città, ma percepisco chiaramente una cosa: qui tutto è come collassato in un buco nero e, nel suo non esserci, è presente senza limiti di tempo. Una pietra antica può anche non essere un legame con il passato – ma la sua non presenza sì. Ad Atene l’assenza di tutto ciò che fu è talmente presente da far fluttuare la città in uno spazio senza tempo, dove tu stesso ieri e tu stesso oggi convivete. Come in una singolarità, e quindi come nella poesia.

Stephen Hawking mi affascina perché mette in discussione l’assioma logico causa/effetto, e lo fa per rispondere alla domanda se è Dio che muove il mondo. Non tutto, dice, ha una causa. Non c’è stata una causa per il big bang. Tutto ciò di cui è composto l’uni-verso era forse rinchiuso in una sorta di microscopico buco nero, dove il tempo non esiste: non sarebbe quindi possibile ipotizzare una causa (l’intervento e di conseguenza l’esistenza di Dio) prima della creazione dell’universo, semplicemente perché non esisteva un “prima dell’universo”. Prima dell’universo non esisteva nulla. Quel minuscolo buco nero è semplicemente “apparso”. L’universo nato dall’esplosione di tale singolarità non è dunque effetto ma solo causa. In questo senso, io lo intendo come “dio”.

Atene è un luogo dove causa ed effetto non esistono più. O meglio esistono ma ignorando ogni coordinata temporale, compaiono e scompaiono e poi ricompaiono, per cui non è possibile stabilire se ciò che succede ora sia l’effetto di qualcos’altro avvenuto chissà dove e quando. È un luogo dove ci sarà sempre uno, qualcuno o nessuno che farà una determinata cosa già fatta da altri o che ancora deve essere compiuta. Ma questo nulla o qualcosa potrà non essere nel futuro della città ma, forse, in un passato che magari deve ancora accadere

***

Massimiliano Damaggio (1969) poeta e traduttore. Nel 2011 pubblica Poesia come pietra, Ensemble, Roma. Nel 2017 pubblica Ceux qui prennet un café face à la mer, poesie tradotte da Olivier Favier, Alidade Editions, Francia. Traduce poeti contemporanei dal greco moderno e dal brasiliano. È fra gli ideatori del blog “perìgeion”. Ovunque sta, vive ad Atene.